Intervista ad Alberto Alessi
Alessi è uno dei marchi di design più conosciuti nel mondo, eppure non ha bisogno di spot televisivi. L'azienda di partenza è un'acciaieria storica, eppure tutti hanno visto almeno una volta nella vita uno dei loro prodotti in plastica. I signori Alessi sono nati come fornitori per le cucine e gli alberghi, ma poi hanno prodotto oggetti per l'ufficio, per il bagno, per ogni aspetto del nostro quotidiano. Hanno fatto inorridire il design classico con i loro oggetti ludici. Hanno prodotto art toys prima ancora che lo stesso concetto di art toy venisse inventato. Sono stati copiati da decine di altre aziende, ma loro sono rimasti leader nel settore.
Gli oggetti Alessi hanno scatenato critiche infuocate e hanno trasformato progettisti conosciuti da un numero esiguo di addetti ai lavori (Philippe Starck), in rockstar del design contemporaneo. Philippe Starck, Alessandro Mendini, Ron Arad, Ettore Sottsass, Stefano Giovannoni, Guido Venturini, Massimiliano Fuksas, I fratelli Campana, Enzo Mari, Aldo Rossi, Michael Graves, Richard Supper, Andrea Branzi, Marc Newson : tutti i più importanti progettisti del mondo sono passati di qui, a Crusinallo di Omegna, negli uffici dell'Officina Alessi.
Alberto Alessi è dalla metà degli anni '70 il motore di tutto questo:
Ho letto che quando sei entrato in azienda avevi delle idee abbastanza "rivoluzionarie", ma che avevano lasciato i tuoi parenti un pò perplessi, per spiegarci meglio, tu eri entrato con l'idea di produrre dei piccoli oggetti d'arte alla portata di tutte le tasche, cosa che forse, oggi, consideri in parte realizzata?
In effetti potrei dir di sì, nel senso che all'epoca era più radicale. L'idea era quella dell'arte moltiplicata, ovvero produrre degli oggetti senza alcuna funzione. delle piccole sculture, prodotte dalle macchine invece che dalle mani. Allora l'operazione fu un fiasco colossale, ma poi ho scoperto che invece applicare la tensione verso un altro "cogradiente artistico" ad oggetti di uso quotidiano e non senza uso, quella era la chiave per aprire la porta a un altro immaginario del pubblico.
Ricordo che come primo autore cercasti di lavorare con Salvador Dalì, che tipo di rapporto è stato?
Dalì si iscrive nell'operazione dei multipli d'arte. A un certo punto mi son detto che lavorare con i maestri italiani andava bene, ma avere uno straniero poteva dar respiro internazionale al progetto. Sono capitato su Dalì, che grazie alla sua nota venalità ha subito aderito alla richiesta. Abbiamo avuto tre o quattro incontri a Parigi e in Spagna e siamo approdati a un prototipo, che poi mio zio e mio padre mi hanno impedito di mettere in produzione. Erano inorriditi dal risultato, secondo loro Dalì mi aveva preso per il culo approfittando della mia giovane età.
C'erano tutti questi ami da pesca che effettivamente erano una cosa pericolosissima da maneggiare, poi c'era una lamiera piegata che doveva essere tenuta insieme da una molletta da biancheria ( che Dalì voleva fosse in legno, ma poi optammo per un acciaio pressofuso, altrimenti non sarebbe mai stata chiusa), all'interno c'era un grande pettine, e ad ogni dente del pettine era agganciato uno di questi grandi ami per la pesca del salmone. Ci mettemmo quattro anni, nel frattempo avevamo prodotto altre sculturine in metallo di Pomodoro e Cascella, ma essendosi rivelate un fiasco già le prime, fui costretto a bloccare tutto.
Parlami del passaggio alla plastica: ad un certo punto vi siete interessati a questo mondo, abbastanza snobbato dal design "serio". Avevate già provato degli accoppiamenti con l'acciaio, il cui risultato più ludico fu la teiera Luccellino di Michael Graves (un bollitore il cui becco finisce con un uccellino in plastica: quando l'acqua bolle, la pressione lo fa fa fischiettare).
E' stato un tipico portato della nostra natura di laboratorio industriale di ricerche nel campo del design. Io dico sempre, noi non produciamo oggetti per la cucina in acciaio, il nostro vero mestiere è essere un laboratorio di ricerca, il cui ruolo è quello di mediatore tra il mondo del progetto e quello del mercato, della società e del pubblico finale. E noi siamo lì in mezzo, tra realtà che rappresentano istanze diverse, e siamo abbastanza sensibili da essere trascinati dai nostri progettisti verso nuove direzioni. Noi non abbiamo mai deciso "ok, adesso entriamo nel mondo della plastica" ma è stata la spinta di una generazione di giovani progettisti (soprattutto italiani) agli inizi degli anni '90, quando abbiamo fatto sotto la direzione di Laura Polinoro l'operazione FFF (Family Follow Fiction). Ci siamo accorti che era proprio sbagliato per la nostra stessa natura costringere i designer ad usare esclusivamente l'acciaio inossidabile stampato a freddo.
L'oggetto-manifesto di questo primo periodo dell'era della Plastica Alessi è stato il "merdolino" (lo scopino per il water a forma di cactus, disegnato da Giovannoni), quali furono le prime reazioni?
Praticamente ha generato una certo sconcerto in tutte le categorie del nostro auditorium. L'ambiente del design si è scandalizzato: "mamma mia!" prima per il tipo di linguaggio, poi per il fatto che si usasse una tipologia così bassa, così umile, che poi se uno lo spiega così a distanza di tempo uno si chiede, "ma che cazzo volevano?" , perché non si poteva? L'idea di sottolineare la fine di un ciclo in cui solo la parte alta sembrava destinata ad essere curata da Alessi mi sembrava divertente. Anche i negozi che tenevano le nostre cose, che mettevano in vetrina le migliori porcellane della tradizione europea, le cristallerie più sofisticate, l'argentato di qualità e di classe, si chiedevano perchè dovevano mettere in vetrina uno scopino per il cesso, "ma che siamo matti?" E invece fu un grande successo, e lo è ancora, perchè ha demitizzato una zona che sembrava che con il design non dovesse avere niente a che fare, un'idea un pò razzista.
Alessi a quel punto era sinonimo di innovazione e trasgressione , come "L'uccello di fuoco", (L'accendigas a forma fallica di Guido Venturini ). Faceva parte di una ricerca di marketing oppure è stata una scelta sperimentale, del tipo "vediamo se si può fare"?
Quel progetto si iscrive nell'operazione FFF, che abbiamo organizzato io e Laura Polinoro, L'idea era quella di lavorare a una fase preliminare al progetto, addirittura quasi prima di scegliere i progettisti, di lavorare quindi a un metaprogetto, che per noi è uno scenario socioculturale di un certo tipo di mondo all'interno del quale andremo a collocare i progetti che devono ancora nascere. Naturalmente c'è un metaprogetto alla base di ogni progetto, ma nel caso di FFF abbiamo scelto di esplorare il linguaggio affettivo degli oggetti, cioè recuperare le relazioni di simpatia, amore o anche di antipatia, ribrezzo, allontanamento che gli oggetti suscitano nel pubblico.
Prendemmo come aiuto il pensiero di due psicanalisti, Donald Winnicott (con la sua teoria degli oggetti transizionali) e Franco Fornari (con il suo pensiero dei codici affettivi),e abbiamo dato questo materiale in pasto a un certo gruppo di designer. Winnicott aveva sviluppato il pensiero degli oggetti "transizionali", che sono in sostanza i giocattoli che ha il bambino all'inizio della sua vita , e che gli consentono, giocando, di capire che lui può costruire il mondo, ed essere attivo e non passivo, contemporanemente di consentire alla mamma di andare e di restare da solo con il suo mondo costruito. Winnicot sosteneva che questa attività non è solo del bambino, ma che si sviluppa durante tutta la fascia di culturizzazione dell'uomo, fino all'età adulta, e li vi collocava forme di attività artistica, scientifica, la religione eccetera. Invece Franco Fornari aveva sviluppato i codici affettivi, sostenendo che il linguaggio degli oggetti si può raggruppare in alcune famiglie di codici ( quello materno, quello paterno, il codice della vita e della morte, il codice erotico ) e gli oggetti parlano attraverso stilemi e ideogrammi che incorporano in maniera del tutto libera, e parlano attraverso questi all'immaginario del pubblico. Praticamente noi abbiamo dato questi materiali a titolo di stimolo culturale, non volevamo essere dei registi. Avevamo scelto dei progettisti affini a questo tipo di stimoli e naturalmente Guido Venturini ha detto "Va bene, allora io scelgo il codice erotico", e da lì ha sviluppato l'accendigas Uccello di Fuoco.
Quanto c'è di vero nelle voci che lo stesso Venturini avrebbe disegnato un modello di vibratore Alessi, ma che poi la cosa non andò mai in produzione, e perchè?
Bellissimo. Bellissimo. Un capolavoro. Ho tentato in tutti i modi di farlo produrre ma i miei fratelli e mio cugino non me l'hanno permesso. Mi rimane qui ogni volta che ci penso, anche perchè eravamo stati i primi a pensarci, dieci anni fa. Avevamo anche acquisito molte informazioni. Venturini e Alliata( l'ingegnere capo di Alessi), avevano trovato, a Zurigo, due lesbiche titolari di una boutique erotica elegantissima, le quali ci funzionavano da consulenti.
Il pubblico compra un oggetto Alessi perchè ne ha bisogno veramente o perchè ci stiamo trasformando in una massa di bambinoni mai cresciuti, e quindi sostituiamo i giocattoli con degli oggetti ludici che hanno comunque l'alibi di una qualche funzione?
E' sicuramente la seconda tua affermazione, e questo lo dico senza alcun giudizio morale. E' sicuramente un'esasperazione di ciò che sosteneva Winnicott, e cioè che questi oggetti transizionali non terminano la loro funzione nel momento in cui si diventa adulti, ma seguono l'uomo per tutta la sua crescita. Non c'è in fondo una grande differenza tra un bollitore e un orso di pelouche. Assolutamente.
Ti senti in qualche modo responsabile della contemporanea febbre per i "design toys", ovvero per tutta quella serie di giocattoli a tiratura limitata realizzati da cartoonist, artisti provenienti dal mondo del graffitismo, fumettisti underground ? Stanno raggiungendo cifre di vendita interessanti, cosa ne pensi?
Sono consapevole che siamo anche noi in qualche modo dentro a questa storia, che peraltro non rappresenta il totale del mondo Alessi, anche se non posso essere calvinista e non riconoscere che cè una linea di continuità anche con progetti più vecchi. Non è che il bollitore di Supper fosse un design "più serio", con il suo manico a cresta di gallo, il fischietto di ottone dorato con cui annunciava la bollitura dell'acqua con una melodia. Cosa c'è di più ludico di così? Poi io non voglio nemmeno esprimere delle preferenze, ma se mi chiedi posso rispondere che mi interessa più quel mondo lì, ma lo trovo un filo conduttore che ci ha portato a quello che facciamo oggi, in assoluta buona fede. E poi io non lavoro per il mercato, lavoro per me stesso.
Alessi negli ultimi due anni si è lanciata nella produzione di figurine di ceramica di stampo pop. E' la vostra risposta alle figurine di plastica di cui parlavamo o cercate di rubare quote di mercato alle ceramiche di Thun ( famosi produttori di ceramiche altoatesine particolarmente kitsh e popolarissime)?
Non posso negarlo, c'è anche la consapevolezza che essendo un'industria presente sul mercato siamo coscienti dell'importanza di questa zona produttiva di oggetti, in questo caso veramente senza alcuna funzione se non quella dell'emozione che sanno suscitare.
Che per altro si lega a tutta una tradizione secolare delle figurine in porcellana, fin da tempi precolombiani.
Ritieni che la ricerca della migliore funzionalità dell'oggetto sia morta con lo spremiagrumi di Stark? Nel senso che dubito venga realmente acquistato per spremere arance, ma che in qualche maniera si sia realizzato il tuo progetto di realizzare piccoli oggetti d'arte alla portata di tutti. In effetti lo spremiagrumi in questione si può ben considerare una delle più belle sculture contemporanee, anche slegandolo dalla sua funzione. In qualche modo credo sia un oggetto che abbia creato uno spartiacque nella storia del design contemporaneo. Tra estetica e funzione.
Io ci gioco. Nel senso che è vero che l'ambizione massima di uno che fa il mio lavoro sarebbe quella di innovare davvero sulla funzione. Sono quasi quarant'anni che lavoro e ogni anno, ogni mese, ogni settimana ricevo dei progetti dove, un pò ingenuamente, il progettista grande o piccolo, giovane o vecchio, tenta di innovare nella funzione. Dopodiché facciamo la nostra selezione e mi accorgo anch'io che alcune sono assolutamente campate per aria, altre hanno degli elementi innovativi e su altri lavoriamo. Di fatto in questi quarant'anni non sono mai riuscito a innovare veramente sulla funzione. Si capisce perché: perché noi lavoriamo in un ambito tipologico di oggetti quanto mai antico. Hanno tutti migliaia di anni , neanche secoli, migliaia! La loro curva di evoluzione in quanto perfezionamento in termini di pratica e funzionamento d'uso è arrivata veramente all'apice. Un secolo nella storia della posata rappresenta veramente poco, non ti dico nel piatto, dove ci si mangia. Mentre l'aeroplano è un bebè che probabilmente tra cent'anni sarà molto diverso, un piatto in porcellana rimarrà molto vicino a ciò che abbiamo. Mi spiego quindi che non siamo noi che siamo imbecilli, ma è proprio l'ambiente tipologico in cui lavoriamo che ci porta a questa constatazione. Poi però penso che è molto bello che ci sia ancora oggi la voglia da parte di un designer e di un'incosciente di produttore di tentare di fare qualcosa che interpreta una certa funzione a modo suo. E' nella natura dell'uomo. Il cavallino nasce e inizia subito a trotterellare. L'uomo invece si deve costruire il suo mondo.
E' una cosa che si potrebbe dire anche del mondo della moda: in fondo per quel che riguarda la vestibilità, la praticità e l'economia sembra già tutto stato fatto, e invece di chiudere baracca e vestirci con delle belle tute continuiamo a disegnare e trovare nuove-vecchie forme, nuovi-vecchi abbinamenti.
Quello della moda è un esempio interessante, perché ci stiamo muovendo in parallelo. Anche gli oggetti che creiamo noi non rispondono soltanto alla ricerca di un valore d'uso, ma servono per comunicare ( come la moda), e hanno anche un valore poetico, servono a rappresentare ogni giorno il nostro teatro quotidiano privato.
Non dimentichiamo come consolazione finale ciò che diceva il grande maestro Bruno Munari a proposito del rapporto forma-funzione.
Lui diceva sorridendo che semplicemente non è concesso all'essere umano di creare una forma perfetta per una data funzione. C'è sempre una distanza, un gap tra le due cose, e questa distanza è il territorio all'interno di cui lavora il designer.
Bruno Munari chiudeva questa sua riflessione : "Beh, ragazzi, c'è solo un oggetto che rappresenta la sintesi perfetta tra forma e funzione, ed è l'uovo, niente di più perfetto. Ma (sorrideva), primo non è un prodotto dell'essere umano, e secondo è veramente fatto con il culo".